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Vent'anni di BRIC

Emergenti, un concetto travolto dalla geopolitica

Vent'anni fa Lord O'Neill of Gatley, allora semplicemente Jim O'Neill di Goldman Sachs, creò il concetto di Bric, l'acronimo di Brasile, Russia, India e Cina. I Bric erano il corpo d'élite dei paesi emergenti. Dietro di loro la pattuglia dei Next Eleven si preparava a raggiungerli, seguita a sua volta dal robusto gruppo dei Frontier Markets, una quarantina di paesi promettenti distribuiti tra America Latina, Africa, Medio Oriente e Asia orientale.

I Bric, mercati enormi con tassi di crescita doppi o tripli rispetto a quelli del vecchio Occidente, avrebbero raggiunto le dimensioni dei paesi sviluppati tra il 2030 e il 2050, avviandosi poi a superarli. Per loro O'Neill proponeva fin da subito uno o due posti nel G7. L'asset class degli emergenti, ancora vista da molti gestori come eccentrica e rischiosa, avrebbe dovuto entrare tra quelle stabilmente presenti nei portafogli per migliorarne significativamente il rendimento.

Quello dei Bric fu un colpo di genio degno di entrare negli annali del marketing finanziario, ma non si trattava di una novità in senso stretto. Era stato preceduto dalla creazione del concetto di mercati emergenti nella seconda metà degli anni Ottanta, un'altra brillante operazione di marketing che aveva accompagnato la ristrutturazione del debito dell'America Latina detenuto dalle grandi banche americane e che veniva ora riproposto al mercato nella cornice del piano Brady.

Dietro ai Bric c'era però anche qualcosa di ancora più antico che era profondamente radicato nella psiche occidentale. Era il sogno di nuovi mondi vergini e favolosi e di ingenti e veloci fortune che aveva sempre coinciso con i vari salti di qualità della globalizzazione. Dalla Compagnia dei Mari del Sud che causò la grande bolla degli anni Dieci del Settecento alle ferrovie americane o argentine nella seconda metà dell'Ottocento, con le quali si guadagnarono e persero fortune, il meccanismo era sempre quello.
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