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Gervasoni: la finanza sia al servizio delle imprese

Intervista ad Anna Gervasoni, Direttore Generale AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital.

Ritiene che i Fondi Private Equity internazionali siano da noi ancora poco presenti, rispetto ai Country Funds italiani e a quelli di derivazione bancaria?

A volte sento dire così, ma è del tutto infondato: i fondi esteri attivi in Italia sono una trentina, cifra simile a quella di altri paesi europei a noi paragonabili. E quelli Italiani un centinaio. Di anno in anno, tuttavia, possono cambiare, e di molto, gli investimenti effettuati.

Quali sono i settori in cui siete più presenti? E quelli sui quali pensate vi siano future possibilità?

Vediamo molte possibilità nel settore delle infrastrutture, dove c'è una grande necessità di mezzi freschi; accanto a F2I, ve ne sono molti altri, di dimensione più ridotta, ma particolarmente dinamici. Devo poi sottolineare, con piacere, le aperture che si sono verificate nel settore bancario e assicurativo: sono caduti alcuni tabù - forse anche per le necessità nate con Basilea 3 e Solvency 2 - e quindi la finanza è diventato un segmento come gli altri; basti vedere quanto avviene con Fonsai, BPM o, forse, in MPS. Inoltre, anche avendo presente le recenti decisioni del Governo, vedo margini nell'ambito delle attese privatizzazioni, con interessanti assets pubblici, anche di enti locali, in via di dismissione.

Ritiene si possano aprire nuovi spazi al private equity nel momento in cui le banche riducono la loro capacità di credito, finora all'85 del totale dei finanziamenti alle imprese?

Il credit crunch dà indubbiamente questa possibilità, ma non bisogna pensare che il private equity prenda in considerazione ingressi in imprese in difficoltà, ma solo in quelle che presentino capacità di sviluppo, anche potenziale.

Considerando il quadro generale, l'aumentata avversione al rischio e la propensione a comportamenti più prudenziali, può cambiare lo spirito dell'industria private equity?

Sicuramente stiamo tornando a dare ancora più peso a logiche di politica industriale e a quella sana filosofia che contraddistingueva gli anni '80, senza inseguire l'ebitda.

LSE - Borsa Italiana valuta che ci siano almeno 1000 aziende italiane potenzialmente quotabili. Perché molte sono restie? Cosa ostacola?

Questo è vero e noi saremmo felici di potere avere una Borsa valida, se non altro perché la quotazione rappresenta uno degli sbocchi naturali per gli operatori private equity. Detto questo, negli ultimi anni non avrei consigliato il collocamento al mio peggior nemico. Con Consob abbiamo tavoli di discussione aperti e i suggerimenti possono essere molti. Il problema principale per avere finalmente un mercato borsistico adeguato all'importanza della nostra economia - al di là della resistenza culturale della nostra imprenditoria di cui si è già detto - è l'assenza di fondi specializzati in small cap, insieme alla burocrazia e agli alti costi connessi alla quotazione.
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