L'auto, come abbiamo visto, non è un settore senza futuro, come si diceva nei tristi anni Settanta. Tutt'altro, di futuri ne ha fin troppi. Il problema è che questi futuri comportano tutti enormi investimenti senza garanzia di successo. È sempre così quando c'è innovazione e non c'è ancora uno standard condiviso. Bisogna buttarsi, spendere, sperimentare e c'è sempre qualcuno che ne esce con le ossa rotte, come la Sony ai tempi del Betamax.
L'industria dell'auto tedesca ha fatto grandi cose. Si è globalizzata e delocalizzata, ha innovato i processi e abbracciato l'automazione, ha intercettato con successo la nuova classe media dei paesi emergenti, ha tratto beneficio dal petrolio a basso prezzo che ha spinto la domanda verso i Suv e le auto di lusso. Questi fattori positivi perdureranno e la Germania difenderà con le unghie e coi denti il suo primato, ma
la bufera dell'innovazione sarà lunga e violenta e la pressione sui margini di profitto costante. È comprensibile che i mercati, quando devono applicare un multiplo e un premio per il rischio sul settore, stiano bassi col primo e alti col secondo.
Le borse europee sono fatte di auto, banche e utilities. Le banche sono state risanate, con amorevoli e pazienti cure in Germania e con amputazioni senza anestesia in Italia, ma al prezzo di essere trasformate a loro volta in utilities senza crescita. Il Return on equity non può salire se ogni ripresa degli utili induce il regolatore a esigere un allargamento dell'equity.
Oggi, il primo marzo 2018, l'Euro Stoxx 50 è a 3400. Tre anni fa, il primo marzo 2015, era a 3591. In tre anni di grande ripresa europea e di bull market globale e dopo un anno di effetto Macron
siamo riusciti a perdere più del 5 per cento. Negli stessi tre anni l'
SP 500 ha guadagnato il 28 per cento.
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