Volendo fare un bilancio della prima metà del 2019, l'aspetto più clamoroso non va ricercato nella realtà sottostante. Dopotutto, l'andamento dell'inflazione e della crescita che abbiamo visto non si discosta molto dalle stime che circolavano in dicembre. Lo stesso si può dire degli utili delle società quotate.
Quello che è
cambiato radicalmente è l'atteggiamento delle banche centrali. Alla fine dell'anno scorso erano ancora orientate su una linea di normalizzazione della politica monetaria, tanto che la Fed, in dicembre aveva ancora alzato i tassi nonostante il coro di critiche. Oggi, al contrario, sono tutte quante orientate verso politiche aggressivamente espansive. La discussione non è sul se ma sul quanto tagliare. Perfino il
Quantitative easing, che era stato riposto in naftalina per la prossima recessione, immaginata lontana nel tempo,
si prepara a ritornare in scena, quanto meno in Europa.
Perché questo affannarsi per sostenere una crescita che non è poi molto diversa da quella che ci si aspettava? Ufficialmente la ragione sta nell'inflazione o, meglio, nelle
aspettative d'inflazione per i prossimi anni. Queste aspettative (di mercato) sono scese continuamente, nel corso dei sei mesi passati, e si sono disancorate, come si suol dire, dagli obiettivi ufficiali delle banche centrali. Questi obiettivi, a loro volta, sono stati rivisti verso l'alto con l'adozione del cosiddetto
targeting simmetrico e l'intenzione di compensare con inflazione aggiuntiva quella che non si è verificata negli anni passati.
In realtà la ragione vera del
mutamento di indirizzo delle banche centrali va cercata nella maggiore fragilità e incertezza del quadro generale. Le guerre commerciali, al momento ritornate a essere guerre di posizione, possono teoricamente riaprirsi in qualsiasi momento e
Brexit è sempre più vicina. Poiché è diffusa l'idea che non siamo abbastanza preparati per una eventuale
recessione, quello che si può fare è cercare in tutti i modi di evitarla. Da qui l'orientamento sempre più aggressivamente espansivo.
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