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Sette e mezzo

Calpestati da un elefante di passaggio


Se è così, esce ridimensionata l'idea dominante del 2020, ovvero che l'entrata del mondo in un nuovo superciclo di politiche basate sulla domanda (e non più sull'offerta come nel quarantennio precedente) non avrebbe provocato inflazione per molti anni (e forse per un paio di decenni, come fu il caso negli anni Cinquanta e Sessanta).

L'illusione di essere invulnerabili e di potere sempre e comunque premere l'acceleratore fino a sfondare il pavimento della macchina senza surriscaldare il motore non è più tra noi. Si può dire che, con la pandemia, abbiamo speso subito (con l'occhio alle scadenze elettorali e con la volontà di battere il populismo sul suo terreno) una parte importante della rendita di risorse inutilizzate ereditata dal quarantennio dell'offerta.

Guardando le cose in prospettiva non è necessariamente un male che sia andata così. Ora siamo intellettualmente più sobri e meno arroganti rispetto a due anni fa. Non per questo torneremo all'insensata austerità del decennio scorso, quell'austerità che l'America ha abbandonato in fretta con la fine del Tea Party e che in Europa si è trascinata a lungo di crisi in crisi, partendo dalla periferia mediterranea e colpendo alla fine anche il cuore manifatturiero tedesco con la recessione del 2018-19.

Abbiamo infatti imparato una lezione che rimarrà nel tempo, ovvero che il pareggio di bilancio è un feticcio privo di senso e che, in regime di tassi bassi, andare in deficit per fare investimenti produttivi (che rendano cioè più del costo del debito pubblico) è un'ottima idea. Perderà invece forza l'idea che qualsiasi idea di spesa sia giusta, incluso il welfare mascherato da investimento in infrastrutture umane, a meno che non serva a compensare eccessi di risparmio privato.
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