Quello che importa è che
la Russia ha spodestato i cambiamenti climatici come priorità di breve e che dalla Russia nei prossimi anni uscirà comunque meno energia. Il petrolio russo respinto dai paesi occidentali troverà, debitamente scontato, compratori nel resto del mondo, ma la produzione russa, privata della tecnologia occidentale, scenderà. L'esempio del Venezuela, che a partire dalla cacciata delle compagnie americane ha visto crollare la sua produzione, è illuminante. Anche se la Russia è meglio attrezzata del Venezuela, il contraccolpo si farà comunque sentire.
L'
atteggiamento apertamente filoiraniano dell'amministrazione Biden complicherà ulteriormente i problemi dell'offerta. Se da una parte si potranno recuperare un milione di barili iraniani, dall'altra si gelerà completamente la disponibilità di sauditi ed emiratini, nemici dell'Iran, a estrarre i barili in più (da due a tre milioni) che potrebbero produrre in tempi brevi.
Quanto all'apporto aggiuntivo di produzione petrolifera americana, non c'è da contarci troppo. Le compagnie hanno infatti interiorizzato un modello di business in cui, a differenza di quello che è sempre prevalso, si investe poco e si massimizza il cash flow.
C'è poi da considerare che i
paesi occidentali, se da una parte continueranno a frenare l'offerta di fossili con le politiche ESG, dall'altra ne
sosterranno la domanda con sussidi ai consumatori. Il caso più clamoroso è quello della California, da trent'anni capofila globale della transizione energetica, che si appresta a varare un sussidio di 400 dollari per chi usa automobili a benzina.
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