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89 / Se Roma piange, Parigi non ride

L'esigenza di stimolare crescita e consumi non è affatto una necessità solo italiana

Ormai risulta piuttosto evidente che l'ultimo trimestre del 2014 sarà determinante per capire quale direzione vorrà prendere l'UE nel tentativo di uscire dalla più profonda crisi dal dopoguerra ad oggi. Anzi, a ben vedere, i due schieramenti contrapposti, quello teutonico e quello mediterraneo, stanno terminando proprio in questi giorni di dispiegare le proprie truppe in attesa dello scontro diretto che avverrà, verosimilmente, entro la fine dell'anno.

Da non trascurare, nell'ambito di questi preparativi bellici, il brillante successo ottenuto dalla Cancelliera che è riuscita a mitigare la nomina del francese Pierre Moscovici (forte assertore di politiche espansive) a Commissario per gli affari economici con la nomina di un suo “generale”, l'ultra conservatore Katainen, a vicepresidente della Commissione con ampi poteri di controllo e veto sulle questioni economiche dell'Unione.

Ora non vi è dubbio che in questo scenario, particolarmente delicato per il futuro dell'Europa, diventerà di importanza fondamentale la posizione che vorrà assumere la Francia. Riterrà di rimanere in una posizione di complice accondiscendenza ai dettami tedeschi, come farebbe pensare la recente defenestrazione del ministro Montebourg (decisamente anti-Merkel), o si schiererà con decisione a fianco della Presidenza italiana impegnandosi sul fronte della crescita e degli stimoli all'economia?

In realtà, gettando una occhiata, anche superficiale, all'attuale situazione economica e finanziaria della Francia, ci si accorge subito che l'esigenza di stimolare la crescita ed i consumi non è affatto una esigenza solo italiana, ma è anche una necessità indifferibile per il Paese d'oltralpe. Infatti, dall'esame degli ultimi dati, la situazione francese non appare molto più tranquillizzante della nostra. Più in particolare, non solo il debito pubblico di Parigi, in forte trend crescente, è ormai a ridosso di quota 100%, ma è ormai evidente l'incapacità del governo di tenere sotto controllo il delicato rapporto deficit/PIL.

Gioverà ricordare, a questo proposito, che la Francia, contrariamente all'Italia, aveva già chiesto ed ottenuto dalla Commissione europea la possibilità di procrastinare il raggiungimento di quota 3% al 2015. Pochi giorni fa il ministro delle Finanze francese ha mestamente dichiarato che l'impegno relativo alla riduzione del deficit non potrà essere mantenuto né nel 2015, né nel 2016, ma forse solamente nel 2017. Il che vuol dire, considerando l'evoluzione dello scenario economico, che non hanno la più pallida idea di quando riusciranno raggiungere il target prefissato.

Il problema, dunque, è che anche in Francia, si è generato un circolo vizioso nell'ambito del quale un PIL “piatto” e consumi interni latitanti, impedendo il raggiungimento degli obiettivi di bilancio, finiscono per spingere verso devastanti politiche restrittive. La conseguenza di quanto sin qui descritto è che in questo contesto la Francia, semplicemente, non può concedersi il lusso di pensare solo ai bilanci, ma deve, nel proprio interesse, creare con Italia e Spagna un solido fronte comune in grado di opporsi al rigorismo teutonico.

Non sarà facile: l'opposizione del finlandese Katainen (che voleva ipotecare l'Acropoli) sarà aspra, il presidente della Bundesbank ha appena dichiarato che la politica della BCE mette a rischio la stabilità finanziaria e la Corte Costituzionale tedesca vigila giorno e notte con rigore prussiano. Tuttavia, il momento odierno, in considerazione della gravità di una crisi che ormai è paneuropea e non solo mediterranea, della Presidenza italiana, nonché della determinazione di Renzi, appare propizio per tentare nuove soluzioni decisamente orientate alla crescita ed allo sviluppo.

Se Italia, Francia e Spagna, rinunceranno o non sapranno sfruttare questo momento, la speranza di rimettere in moto l'economia europea passerà, ancora una volta, nelle mani di Mario Draghi. Il quale però, ha già più volte chiarito che con i suoi interventi, al limite del convenzionale, può concedere ai governi più tempo per risolvere i problemi, ma non può risolvere, al loro posto, i problemi strutturali di una Unione Europea divisa e decisamente miope.

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