Quando vendiamo un titolo in perdita otteniamo una minusvalenza: non è solo una brutta notizia, ma anche un credito d’imposta. La legge, infatti, ci permette di sottrarre queste perdite dai futuri guadagni dello stesso tipo, abbattendo o azzerando la tassazione del 26% per quattro anni successivi alla data della vendita (ad esempio, la perdita è avvenuta nel 2024 sarà utilizzabile fino al 31/12/2028). È sufficiente calcolare bene la minusvalenza, farla registrare nello zainetto fiscale del proprio dossier titoli e, appena si realizza una plusvalenza compatibile, la banca (o il commercialista) scalerà automaticamente l’importo.
Che cos’è una minusvalenza e quando si genera
Se compriamo un’azione per 10.000 € e la rivendiamo a 7.000 €, quei 3.000 euro persi, per il fisco, rappresentano una minusvalenza. Abbiamo speso più di quanto abbiamo incassato: pertanto,
abbiamo registrato una perdita. Dal punto di vista fiscale, però, quella stessa perdita diventa un credito d’imposta che possiamo usare per pagare meno tasse sui prossimi guadagni.
La legge italiana distingue chiaramente tra due tipi di reddito generato dagli investimenti:
- Redditi di capitale: interessi, dividendi e, in generale, incassi che arrivano “automaticamente” dal semplice possesso di un titolo (la cedola di un BTP o il dividendo di un’azione, per fare qualche esempio).
- Redditi diversi: plusvalenze o minusvalenze che nascono solo quando il titolo viene venduto, quindi un evento incerto legato al prezzo di mercato.
Le minusvalenze di cui stiamo parlando, rientrano quindi in questa seconda categoria. Una volta realizzate, cioè quando la vendita è avvenuta, finiscono in uno
zainetto fiscale, ovvero in un piccolo serbatoio di perdite che ci portiamo dietro per l’anno in corso per i quattro successivi.
Ogni volta che, nello stesso periodo, realizziamo una plusvalenza su strumenti assimilabili (azioni, obbligazioni rivendute prima della scadenza, certificati, derivati, ETC, crypto-asset oltre la soglia di legge), la banca o, in regime dichiarativo, il commercialista
detrarrà automaticamente la minusvalenza residua dall’imponibile.
Questo significa che se il prossimo anno vendiamo un altro titolo con un guadagno di 5.000 €, i 3.000 € di minusvalenza maturata oggi azzereranno parte della base imponibile, permettendoci di pagare il 26% solo sui restanti 2.000 €.
Tuttavia, c’è da considerare un dettaglio chiave: le minusvalenze nate da strumenti che il fisco classifica tra i redditi di capitale non possono essere compensate con plusvalenze dello stesso tipo (un altro ETF o i dividendi di un’azione).
Servirà invece un guadagno su strumenti che generano redditi diversi.
Il quadro normativo di riferimento
Per capire come le minusvalenze possano diventare un risparmio d’imposta bisogna fare un rapido giro nei due articoli cardine del fisco finanziario:
il 67 e il 68 del TUIR.
Questi articoli definiscono la natura e il calcolo delle plusvalenze e minusvalenze derivanti da strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, derivati, certificati e, dal 2023, crypto-asset). L’aliquota di tassazione, pari al 26%, è stabilita dal D.Lgs. 461/1997, fatta eccezione per titoli di Stato ed equiparati, tassati al 12,5%.
Fin qui nulla di nuovo. Le vere novità sono arrivate con le ultime Leggi di Bilancio. La più evidente riguarda le
cripto-attività: dal 2023, infatti, i guadagni ottenuti dalla vendita di crypto-asset sono tassati come le plusvalenze su azioni e obbligazioni. In pratica, finiscono nello stesso “cassetto fiscale” dei redditi diversi di natura finanziaria e possono quindi assorbire minusvalenze pregresse o generare minusvalenze da riportare nei quattro anni successivi.
La tassazione scatta solo se, nel corso dell’anno, le plusvalenze nette superano i 2.000 euro: non conta il valore dei wallet o la durata del possesso, ma il guadagno realizzato con le vendite.
Un’altra modifica, meno nota, riguarda i
PIR alternativi, cioè quei
Piani Individuali di Risparmio che superano il limite storico dei 40.000 euro annui di versamento. Anche in questo caso, eventuali perdite maturate all’interno del PIR restano riportabili per quattro anni, proprio come accade per i normali investimenti finanziari gestiti in regime amministrato.
Il legislatore ha chiarito che il guadagno ottenuto acquistando un’obbligazione sotto la pari e rivendendola o portandola a rimborso a un prezzo più alto genera una
plusvalenza tassabile al 26%, classificata come reddito diverso. Questo significa che può essere utilizzato per compensare eventuali minusvalenze pregresse presenti nello zainetto fiscale.
Regimi fiscali a confronto
Quando si apre un dossier titoli la prima scelta da compiere è quella del
regime fiscale.
Se il nostro conto è presso una banca italiana, di solito entriamo automaticamente nel cosiddetto
regime amministrato: ogni volta che vendiamo qualcosa in utile, l’intermediario trattiene il 26% e archivia eventuali perdite in uno zainetto che userà per compensare i guadagni successivi. È il sistema più comodo, ma ha un limite evidente: lo zainetto vale solo all’interno di quella banca. In pratica, le minusvalenze accumulate su una piattaforma non si possono compensare con i guadagni realizzati su un’altra.
Il secondo modello è il
regime dichiarativo, tipico dei conti esteri o di chi preferisce gestire tutto in autonomia. Qui non c’è sostituto d’imposta: calcoliamo plusvalenze e minusvalenze in autonomia, li riportiamo nel quadro RT della dichiarazione e versiamo l’imposta in un’unica soluzione a giugno dell’anno dopo. Il vantaggio è la libertà (le perdite maturate su un broker possono compensare i guadagni realizzati su un altro), ma servono metodo e un archivio preciso di operazioni, costi e cambi.
Il terzo caso riguarda
chi affida il patrimonio a una gestione o a un fondo comune di investimento. A fine anno il gestore confronta il valore iniziale con quello finale: se c’è un saldo positivo si paga la tassa, se c’è un saldo negativo non nasce alcuna minusvalenza individuale trasferibile. È una strada senza pensieri, ma si rinuncia alla possibilità di sfruttare singole perdite su decisioni future.
Modalità di calcolo: come si determinano le minusvalenze
Prima di usare una minusvalenza bisogna saperla calcolare.
Il punto di partenza è il
costo complessivo: questo non riguarda solo il prezzo di acquisto del titolo, ma anche le commissioni, eventuali oneri di cambio e spese di borsa.
Ad esempio, se si comprano 100 azioni a 50 euro pagando 10 euro di commissione, il prezzo di carico reale non è 5.000 ma 5.010 euro.
Nel
regime amministrato l’intermediario applica il criterio
FIFO (First In First Out): quando si vende, si considerano usciti per primi i lotti più vecchi.
Facciamo un esempio pratico: a gennaio 2024 acquistiamo 100 azioni Alfa a 70 euro e a marzo 2024 ne compriamo altre 100 a 60 euro. A luglio 2025 decidiamo di vendere 120 azioni a 55 euro. Il broker imputa i primi 100 titoli al lotto da 70 euro e i successivi 20 a quello da 60 euro. Il costo fiscale riconosciuto sarà di 7.000 euro per le prime 100 azioni e 1.200 euro per le altre 20, per un totale di 8.200 euro. L’incasso invece è di 6.600 euro: il risultato è una
minusvalenza di 1.600 euro, dato che il prezzo di vendita è inferiore al costo storico dei titoli venduti.
Chi opera in
regime dichiarativo può usare invece il
LIFO (Last In First Out): si parte dai lotti più recenti. È un dettaglio che può cambiare il segno aritmetico della singola operazione, quindi va documentato con cura.
Per fondi ed ETF il discorso cambia di nuovo: l’intermediario calcola un
costo medio ponderato di tutte le quote. Se si comprano 200 quote di un ETF a 25 euro e poi altre 100 a 30, il costo medio diventa 26,67 euro. Rivendendo 150 quote a 24 euro, la minusvalenza non si ottiene con la logica dei lotti, ma moltiplicando il prezzo medio per le quote cedute: 3.600 euro di incasso contro 4.000 di costo, quindi 400 euro di perdita da spendere entro il quarto anno.
Infine,
attenzione ai cambi: un’azione NYSE comprata in dollari va convertita in euro sia al momento dell’acquisto sia a quello della vendita. La differenza di cambio fa parte integrante della minusvalenza o plusvalenza e trascurarla significa sbagliare l’imponibile, con il rischio di regalare soldi al fisco o, peggio, di vedersi contestare il calcolo in sede di controllo.
Tabella di riepilogo
| REGIME/STRUMENTO | METODO DI IMPUTAZIONE DI LOTTI | COSA ENTRA NEL PREZZO DI CARICO | PASSO OPERATIVO PER IL CALCOLO | DETTAGLIO DA NON DIMENTICARE |
| Dossier in regime amministrato | FIFO: il primo titolo comprato è il primo a uscire | Prezzo d’acquisto + Commissioni + Oneri di borsa + Spese cambio | Confronto tra incasso lordo di vendita e costo attribuito dal broker al lotto più vecchio | La banca aggiorna lo zainetto fiscale in automatico a ogni trade |
| Dossier in regime dichiarativo | LIFO: si parte dal lotto più recente | Prezzo d’acquisto + Costi accessori riportati nel proprio archivio | L’investitore ricostruisce a ritrovo i movimenti e riporta il risultato nel quadro RT | Fondamentale conservare estratti e cambi del giorno di regolamento |
| Fondi ed ETF | Costo medio ponderato di tutte le quote in portafoglio | Somma investita divisa per numero di quote (include commissioni di acquisto) | Minus = (prezzo medio x quote vendute) – incasso di vendita | La perdita così calcolata potrà compensare solo plusvalenze su redditi diversi |
| Obbligazioni cedute prima della scadenza | FIFO o LIFO come per le azioni | Prezzo pagato + Interessi maturati già tassati + Costi | Differenza tra prezzo pulito di vendita e costo imputato | 1Il rateo interessi incassato resta reddito di capitale: non si compensa |
| Crypto-asset (dal 2023) | Lotto analitico o FIFO se detenute sullo stesso wallet | Valore in euro al cambio del giorno di acquisto + Fee di transazione | Plus/Minus in euro = Prezzo di vendita – Costo imputato | Tassazione solo se le plusvalenze nette annue superano i 2.000 euro. Sotto questa soglia, guadagno non tassato |
| Derivati, Certificati, ETC/ETN | Per cassa sull’operazione chiusa | Premio pagato + Commissioni | Minus = Incasso netto – Costo complessivo | Cedole o premi periodici già tassati non rientrano nella compensazione |
Come compensare minusvalenze con plusvalenze spiegato in modo pratico
Abbiamo già detto che una minusvalenza non è solo una perdita, ma un credito fiscale che possiamo usare per abbattere le imposte su futuri guadagni. Attenzione al tempismo: da quando la minusvalenza nasce abbiamo quattro anni pieni (più l’anno di realizzo) per spendere quel credito: superato questo lasso di tempo, il credito scade e lo perdiamo. Ecco perché verso fine anno, se abbiamo minusvalenze datate, conviene controllare il calendario.
Il meccanismo è abbastanza semplice: realizziamo una plusvalenza su un titolo che genera
redditi diversi (azioni, bond rivenduti prima della scadenza, derivati, certificati, ETC o anche crypto con plusvalenze annue nette sopra i 2.000 €). A quel punto lo zainetto fiscale, o il quadro RT se siamo in dichiarativo, scala prima le minusvalenze più vecchie e poi le altre, fino a coprire completamente l’utile o fin dove arriva la capienza. Se il guadagno è inferiore alla perdita, la parte non utilizzata resta disponibile: se è superiore, paghiamo il 26% solo sulla differenza.
Attenzione però:
dividendi e cedole sono redditi di capitale e non si toccano. Anche i proventi periodici degli ETF armonizzati (cedole o dividendi) rientrano tra i redditi di capitale e non possono essere compensati con minusvalenze. La plusvalenza sulla vendita delle quote, invece, genera un reddito diverso e può essere compensata.
Strumenti che producono minusvalenze "utilizzabili" e "non utilizzabili"
Il segreto per non sprecare le perdite sta tutto nel sapere
quali titoli generano minusvalenze spendibili contro future plusvalenze.
La regola di base è la seguente: ogni volta che vendiamo uno strumento che il fisco classifica fra i
redditi diversi, la minusvalenza entra nello zainetto e potrà essere compensata con guadagni della stessa categoria.
Se lo strumento rientra nei
redditi di capitale, la perdita finisce comunque nello zainetto, ma non potrà compensare utili “di famiglia”, ad esempio cedole o plus su ETF.
Quindi, andiamo a precisare meglio cosa genera una minusvalenza utilizzabile nel seguente elenco:
- Azioni e obbligazioni vendute prima della scadenza generano minusvalenze sempre compensabili. Il discorso cambia se l’obbligazione è tenuta fino al rimborso: in quel caso, l’eventuale scostamento finale diventa reddito di capitale e la perdita non si usa.
- ETF e fondi armonizzati europei generano redditi diversi quando li vendiamo, sia che registriamo una perdita, sia che realizziamo un guadagno. Ciò significa che minusvalenze e plusvalenze possono compensarsi tra loro e con altri strumenti finanziari dello stesso tipo. Diverso è il discorso per i proventi periodici, come cedole o dividendi, che sono redditi di capitale e non si possono compensare con minusvalenze pregresse.
- Fondi non armonizzati e comparti hedge domiciliati in Paesi extra-UE producono redditi diversi sia in perdita sia in guadagno. Pertanto, risultano più flessibili, sebbene spesso meno diffusi.
- Derivati, Certificati, ETC/ETN e prodotti strutturati sono sempre redditi diversi, ottimi per usare le minusvalenze per ridurre le tasse.
- Crypto-asset dopo il DL n. 209/2023 entrano pienamente fra i redditi diversi. Quindi, minusvalenze e plusvalenze derivanti dai crypto-asset possono compensarsi tra loro e con quelle derivanti da azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari tradizionali.
- Valute estere: la chiusura di un conto in divisa straniera crea minusvalenze compensabili solo se il deposito ha superato i 51.645,69 € (controvalore) per 7 giorni. La vendita di valuta fisica, invece, segue regole diverse e genera redditi tassabili solo se le plusvalenze complessive superano i 2.000 euro annui.
- Titoli di Stato: se acquistati sotto la pari e rivenduti prima della scadenza, la differenza è reddito diverso tassato al 12,5%. Se sono tenuti fino a rimborso, la perdita non si sfrutta, perché rientra nei redditi di capitale.
Documentazione e adempimenti pratici
Per trasformare la minusvalenza in risparmio fiscale è necessaria una specifica documentazione:
- Certificato minusvalenze: se chiudiamo un rapporto in regime amministrato o passiamo a un altro intermediario, dobbiamo chiedere sempre il certificato previsto dall’art. 6 del D.Lgs 461/97. Questo indica anno di origine e importo delle minusvalenze residue. Consegnandolo alla nuova banca, lo zainetto viene “ricaricato”. Se invece passiamo a regime dichiarativo, il documento ci servirà per compilare il quadro RT.
- 730 o Modello Redditi: chi resta in regime amministrato non deve indicare nulla perché la banca fa da sostituto d’imposta. Se operiamo in regime dichiarativo, le minusvalenze recenti vanno nel rigo RT92-94, mentre le più anziane (che stiamo utilizzando) si indicano nel rigo RT95-97. Se deteniamo strumenti o conti all’estero, ricordiamo anche il quadro RW per il monitoraggio e l’IVAFE.
Infine, ricordiamoci di
conservare estratti, contratti e cambi di riferimento per almeno cinque anni: in caso di verifica, sarà possibile dimostrare rapidamente il calcolo di costi, plusvalenze e minusvalenze dichiarate.