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Si fa presto a dire "dal produttore al consumatore"!

La filiera ovvero tutti i passaggi che compie un prodotto.

Filiera, questa sconosciuta (e poco legiferata)

Dal momento che al giorno d'oggi non c'è un'accezione comune e riconosciuta dei termini filiera e tracciabilità (i dizionari meno aggiornati nemmeno li contemplano!), anche perché la stessa parola "filiera" è stata coniata pochi anni orsono dall'agronomo francese Louis Malassis, vien da sé che l'applicazione normativa scarseggia alquanto.

Fino ad ora l'unica legge a far fede è il Regolamento (CE) 178/2002 (le cui disposizioni sono entrate in vigore nel 2005) secondo il quale gli operatori devono applicare la legislazione alimentare in tutte le fasi della catena alimentare, ovvero durante la produzione, la trasformazione, il trasporto, la distribuzione e la fornitura degli alimenti. Essi sono dunque responsabili della tracciabilità dei prodotti in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, anche relativamente alle sostanze incorporate negli alimenti.

In estrema sintesi, il Regolamento obbliga gli operatori del settore alimentare e dei mangimi a conservare le informazioni sui loro fornitori (da chi hanno comprato cosa e in che quantità) e sui loro clienti (a chi hanno venduto cosa e in che quantità).
E qui sorge una domanda: se c'è davvero questa imposizione di scrupolosità perché, in occasione della bufera scatenata dai prodotti che spacciavano carne di cavallo per carne di manzo, la società francese fornitrice di Findus aveva annunciato che avrebbe fatto causa contro ignoti per il danno subito? Non si deve assicurare l'assoluta tracciabilità di un prodotto?

La riposta è molto semplice: il Regolamento ha molte lacune. Nell'Unione Europea, nel caso dello scandalo delle carni equine, è obbligatorio indicare in etichetta la provenienza della carne bovina dopo l'emergenza mucca pazza, ma non quella della carne di maiale o di coniglio e cavallo. Un vuoto normativo riempito da poco con nuove disposizioni che tuttavia lasciano fuori molti alimenti, come ad esempio il latte e prodotti non trasformati o mono-ingrediente, per i quali la Commissione si riserva qualche anno di tempo per decidere se includerli nella lista dei cibi "controllabili".

Anche la legge sull'etichettatura (Regolamento (UE) 1169/2011) e il codice a barre per ora servono a poco. La prima perché, pur contemplando anche informazioni utili per risalire alla provenienza dei prodotti, esclude certi alimenti di importanza fondamentale come il latte. Per ora si sa in quale stabilimento è prodotto, l'ora e il lotto di produzione, ma non da quale Paese proviene.

Il codice a barre, invece, dice ben poco: le prime due cifre si riferiscono al Paese. Per esempio i numeri 80-83 stanno per Italia, 90-91 per Austria e così via. Questi numeri non dicono però quale sia l'origine del prodotto o la provenienza delle materie prime.
Le successive 5 cifre rappresentano l'indirizzo del produttore oppure del fornitore, le cinque cifre che seguono danno informazioni sull'articolo stesso, per esempio se si tratta di cioccolatini assortiti, se sono in confezione regalo ecc., mentre l'ultimo numero serve solamente come verifica, in modo che il computer possa accorgersi di un'eventuale "svista". Nulla che possa richiamare al lungo percorso di un alimento o bene di consumo, insomma.

Fiducia fai da te? Sì, con l'autocertificazione

In attesa che il Regolamento CE entrasse in vigore, ma anche per dare un'immagine migliore di sé, molte aziende hanno deciso di adottare degli standard di tracciabilità.

Nel 2001 l'UNI (Ente Italiano di Unificazione) ha pubblicato la Norma nazionale UNI 10939 "Sistemi di rintracciabilità nelle filiere agroalimentari - Principi generali per la progettazione e l'attuazione". E non si tratta di una norma sovrapponibile con il Regolamento CE 178, perché la UNI ha obiettivi e requisiti diversi. Nel 2008 la UNI 10939 è stata sostituita dalla norma internazionale UNI EN ISO 22005, che ha anche valenza internazionale.
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